1. "E dire che ti odiavo" parte 1


    Data: 01/05/2021, Categorie: Etero Autore: Isabella91

    Settembre sarebbe stato il mese del mio penultimo tirocinio in ospedale. Non ne potevo più. I turni di notti mi avevano sballato del tutto il ritmo sonno-veglia, facendomi piombare in uno stato di ansia, confusione e stanchezza. Le giornate erano frenetiche. Dormivo poco, ritagliavo il tempo per la spesa due volte a settimana seguendo una lista che preparavo scrupolosamente la sera prima, insieme al pranzo per il giorno seguente, in modo da trovarlo già pronto. In reparto era sempre la stessa routine. Il giro letti, il controllo dei parametri vitali, la distribuzione della terapia, le medicazioni. Mi fermavo giusto il tempo per pisciare e, per risparmiare sui minuti, ancora sul cesso divoravo di fretta una barretta energetica, la quale mi permetteva di tirare avanti fino al termine del turno. Ero allo stremo delle forze. Avevo scelto come ripiego un corso di laurea che non mi appagava affatto, non mi stimolava. Mi sembrava di vivere una vita che non fosse la mia. Ero così giovane e già così frustrata. Il cambio di reparto da un mese all’altro ormai non mi creava più alcun margine di tensione. Trenta giorni in un ambiente ogni volta nuovo, con colleghi nuovi, nuove rotture di coglioni. Non avevo né tempo né voglia di creare legami o chiacchierare oltre ad una facciata di educazione. Trenta giorni passano in fretta e quelle facce non le avrei viste mai più. “Trenta giorni a settembre e trenta giorni ad ottobre, poi è finita”, tentai di motivarmi mentre spegnevo la sveglia ...
    ... delle 5.30 del mio primo nuovo giorno. Feci colazione e mi preparai. Mi piaceva essere sempre in ordine per rispetto ai pazienti. I capelli puliti, legati in una coda o in una treccia, un trucco leggero. Arrivai in reparto in netto anticipo, come ero solita fare. Esplorai l’ingresso, attesi l’arrivo del cambio del personale della mattina. Mi presentai con una stretta di mano forte e sicura. La caposala, incastrata da giorni in una faccenda scomoda con il pronto soccorso, mi disse con tono sbrigativo di non aver avuto il tempo per organizzare i miei affiancamenti. Risposi che non c’era problema e che avrei dato una mano dove ci fosse bisogno. Nel frattempo avevo conosciuto tutte le colleghe del turno. Tutte tranne l’unico uomo, un tale sulla quarantina dalla faccia antipatica e con un pizzetto orribile e retrò. Riccardo, come seppi si chiamasse in seguito, non si era preso nemmeno la briga di presentarsi. Lo feci io, per educazione e per sdegno. Si rivolse a me senza quasi guardarmi negli occhi, ma continuando a controllare dei dati al computer. Poi d’un tratto fece un sospiro rassegnato, scocciato e, come se fosse una concessione divina, mi disse: “Dai, iniziamo. Oggi stai con me”. Restò in silenzio per tutto il tempo. Non mi chiese nulla, non mi spiegò nulla. Sentivo la rabbia ribollire nelle viscere. Mi sentivo inesistente e mortificata. Riccardo a volte spariva senza comunicarmi niente, lasciandomi in piedi in mezzo al corridoio come uno stoccafisso. Mi trovai costretta a ...
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