"Due anime che si trovano"
Data: 26/08/2019,
Categorie:
Etero
Autore: Isabella91
... uno schiaffo che prende rincorsa. Sentivo brividi impietosi lungo le braccia, un desiderio sessuale ed umano che mi strappava il petto. Avvertivo lo stesso in Elia, come uno specchio. “Non ti bacerò”. Me lo disse come un’informazione di servizio. “Su, vai a pisciare. Sono un galantuomo, ti aspetto”. Incredula, arrabbiata, lesa nella vanità, mi sedetti sul cesso, dopo aver varcato la seconda porta. Sentivo l’eccitazione scendere dall'inguine alle gambe come una morsa dolorosa. La sentivo tirare sui muscoli mentre flettevo le cosce per non appoggiarmi su quella maledetta tazza. Tirai l’acqua con violenza ed uscii per lavarmi le mani. Non parlavo. Elia mi prese per un braccio e mi affisse al muro come un quadro. Mi baciò, premette le labbra sulle mie come per divorarmi, come se fossi stata l’acqua al termine della corsa campestre. “Come cazzo faccio a non baciarti, me lo dici?”. La sua lingua era calda e riconoscente, appassionata, viaggiava con la mia verso una bolla erotica che sembrava scoppiarci addosso, invaderci con la sua potenza, non sapendola gestire. “Siamo due anime che si trovano”, mi disse poi, a distanza di mesi. Ed era vero. Eravamo due anime spinose, rese poco amabili. La sua era attratta dal buio e dall'eccitazione degli eccessi, dalle lacrime e dalla sfiducia. La mia era un’anima tremula, ingorda e senza una strada. La sera del cesso mi chiese se dopo la tequila mi era venuta fame. Risposi di sì, e non era vero. Trovammo un bar notturno con le luci al neon. ...
... Era squallido e decadente. Una cornice perfetta per quella casualità. Elia mi offrì un toast, lo fece scaldare e tagliare a metà. “Voglio farti sentire la musica della mia vita. Quella che sarebbe perfetta per questo momento”. Non c’era traccia di romanticismo allestito come un palcoscenico frettoloso. Quello che mi diceva era vero. Mi portò in motorino fino al suo appartamento, come i ragazzini. Ricorderò per sempre l’odore del suo corridoio. Incenso, un odore forte, speziato e così avvolgente da farmi male. Era l’odore della sua casa, di quelle che divennero le nostre abitudini fuori da ogni tradizionalismo. I caffè, le verdure tagliate a cubetti sul tavolo della cucina, i vestiti per terra. Le piante aromatiche in terrazza, il rosmarino che si strofinava sulle dita per poi stringermi il viso e coprirmi il naso. Le urla che non si fecero attendere, quelle strazianti che spaccavano la cassa toracica e le domande sulla propria dignità, su quello che avevamo chiamato amore, come si chiama un figlio che non si vuole. Scopammo sul suo letto a soppalco, fotografie di Londra, Budapest, Notre Dame. Uma Thurman, “The Dreamers”, David Lynch. Occhi che ci guardavano scopare sputando arte e cinema che avrei conosciuto come amici importanti, film sui quali avrei pianto in una multisala solitaria, scoprendo di sapermi emozionare, di saper inghiottire quel nodo di segatura bloccato nella faringe, che non mi faceva né respirare né mangiare. Le sue lenzuola erano nere, color catrame come il ...