Luciana [3]
Data: 08/11/2017,
Categorie:
Etero
Autore: Foreignpress, Fonte: EroticiRacconti
Sentivo la lingua di Luciana che mi leccava dal buco del culo alle palle, a lente lappate, mentre oltre la balaustra del nostro terrazzino il sole di Fuerteventura si divideva tra il cielo e il mare. «Allarga le gambe», diceva, e io le allargavo. Avevo il pisello già duro, ma non voleva farmi un pompino. Si era affacciata sul terrazzo mentre prendevo il sole con l’intento, subito chiarito, di leccarmi un po’, e magari eccitarmi per una scopata, o per farmi segare da solo. Aveva cominciato dalle palle, era scesa al culo, e ora che avevo tirato le gambe indietro tenendole con le mani, come faceva lei quando voleva che alternassi fica e ano, mi leccava i piedi. Lentamente, con adorazione, dito dopo dito e interstizi, succhiando gli alluci e accarezzandomi, con la mano libera, i polpacci. Sentivo una brezza fresca sui punti bagnati, cioè culo, testicoli e piante dei piedi (leccati da lei) e punta del cazzo (eccitata, scappellata, sgocciolante di pre-sperma). Appena passò al secondo piede, le passai l’altro sul seno, stringendo i capezzoli tra l’alluce e il secondo dito: quando lo facevo, gemeva come se le stessi succhiando il clitoride: occhi chiusi-bocca aperta-rantolo animale. «Come si chiama, questo dito?», mi chiese, la voce roca, poco prima di indicarmi il secondo dito del piede con la punta della lingua. «Secondo dito», risposi. «Perché?» Lei fece spallucce e se lo infilò in bocca come fosse un piccolo cazzo, e guardandomi negli occhi cominciò a succhiare, e a fare su e ...
... giù, insomma a simulare un pompino, con tanto di leccatine finali, di rapidi colpetti sul polpastrello. Poi diede un’ultima rapida lappata alla pianta, prima di interrompersi e guardarmi il cazzo, duro e sgocciolante, sulla pancia. «Beh, che facciamo. Me lo metti dentro, quello?», disse indicandolo. «Non ho capito bene», risposi. Lei sorrise, alzò il suo piede destro e me lo passò delicatamente sulle palle, a mo’ di carezza. Poi, con lentezza, si sfilò le mutande. Amavo la sua fica, follemente: era curata, sì, ma molto più pelosa di quando l’avevo conosciuta; come il mio cazzo, d’altronde: era un segno di confidenza, forse, o di routine positiva. Non lo so, ma quella vagina schiusa sopra le mie labbra o a un passo dalla mia cappella gonfia mi arrapava molto più dei primi tempi. «Mi infili il cazzo qui? Per piacere», disse, allargando di poco le gambe come per pulirsi dopo la pipì, e indicandosi col dito. «Qui dove?» «Qui, nella fica. Dai, che stiamo sgocciolando come due termosifoni rotti». Risi, e la guardai. In piedi, contro quel tramonto spagnolo, la pancia di quasi sette mesi (alta, piena, senza smagliature), l’ombelico all’infuori, i seni appesantiti, rigogliosi, e i capezzoli larghi e scuri come la parte gommata di un ciuccio. «Aspetta», le dissi. Poi presi il cellulare dalla tasca del costume, acciambellato a terra, le misi i piedi sul pancione. Lei me li strinse, e io fotografai l’insieme: le sue mani, i miei piedi sul suo ventre, il seno, la vagina. «Il mio nuovo ...