Fear Of The Dark
Data: 11/04/2018,
Categorie:
pulp,
Autore: Fil73
“I am a man who walks alone, and when I am walking a dark road At night or strolling through the park. When the light begins to change…”. (Fear of the dark-Iron Maiden) Come cambia la vita pensò. Quella che da piccolo era la sua più grande paura, ora era sua amica. Quella canzone era passata nella sua testa in continuazione negli ultimi anni. Si sentiva a suo agio quando giungeva la notte. In quel momento le persone erano tutte uguali, tutte sagome scure, che camminavano sole, senza nemmeno l’ombra a farle compagnia. Pensava che solo in quella circostanza nessun viandante avrebbe potuto vedere il suo volto, segnato dagli anni di carcere. Si, perché quel lungo periodo di reclusione, lo aveva segnato dentro e fuori. Aveva perso il conto dei giorni quasi subito. Aveva ignorato il continuo girare delle lancette sul suo orologio, che gli avevano tolto appena entrato. La poca luce che passava attraverso le sbarre quadrate della piccola finestrella, era l’unica fonte di tempo e di luce. Aveva iniziato a segnare sul muro i giorni, sei stanghette verticali, e la settima in orizzontale per chiudere la settimana. Presto si era stancato anche di quella conta. Erano passate talmente tante meridiane che aveva scordato anche il motivo per cui era stato rinchiuso, o più semplicemente gli faceva piacere non ricordarlo. Al calar del buio, quando i lampioni illuminavano la strada con un tono giallastro, usciva. Nascosto nel suo parka verde, i jeans vecchi e trasandati e dei scarponcini ...
... Timberland, gli stessi che indossava il giorno che lo fermarono, si aggirava come un fantasma tra i fantasmi. Il parco non era una zona sicura. Era sconsigliato aggirarsi tra i platani e le acacie nelle ore notturne. Gli spacciatori, i rapinatori ed i violentatori che lo frequentavano, avevano fatto instituire un coprifuoco tra la gente del quartiere. Lui camminava tranquillo, non aveva più paura del buio, né della gente. Forse era la gente, o meglio quel tipo di gente, che doveva aver paura di lui. Lentamente cominciò a ricordare, o il ricordo, sbiadito come la foto sulla lapide della figlia, iniziava ad esser meno doloroso. Passava le ore dal tramonto all’alba, con la stessa frenesia con cui passò quelle settimane di ricerca. Era andata a giocare in quel parco una sera di gennaio. Le foglie cadevano dagli alberi, staccate da un leggero vento. Quel soffio artico, le portava in giro tra i palazzi, dipingevano voli pindarici, in alcuni casi disegnavano mulinelli o trovavano l’ultimo passaggio per il marciapiede spostate dalle auto. Altre morivano sotto i pneumatici. Gli stessi pneumatici, che la portarono in una casa abbandonata dove fu gioco e distrazione di un figlio di un preservativo bucato, come diceva lui. Ormai quel parco era la sua meta serale e notturna. Credeva di sentire la sua voce da bambina quando prendeva quelle foglie al volo. Quando rincorreva un hula hoop, o rideva sull’altalena sotto le sue spinte. La vedeva leggere i libri su quelle panchine una volta cresciuta, ...