1. Un nodo di solitudine


    Data: 10/01/2018, Categorie: Prime Esperienze Autore: BlackInk, Fonte: Annunci69

    Incontrai la solitudine profonda quando i miei genitori divorziarono male. Mia madre fuggì con un incantatore di serpenti indiano e nessuno ne seppe più nulla. Mio padre si perse dietro i fumi della sua ossessione lavorativa. Mi regalò una cospicua rendita economica ma completamente arida dal punto di vista affettivo.
    
    Passai gli anni dell’adolescenza a casa dei nonni paterni, con la figura della nonna che era come un generale di brigata. Non si muoveva foglia che lei non volesse. Andavo a scuola, tornavo e studiavo. Punto. Praticamente un eremita.
    
    Finito il liceo, mi ritrovai spedito in un’università a distanza siderale da casa, con obbligo di frequenza e soggiorno interno. Nei primi mesi mio padre si fece vivo tutti i sabati, mi portava in città e passavamo la giornata insieme. Cinema, ristorante, centro commerciale. Poi iniziò a saltare un weekend, quindi due e le scuse si fecero sempre più astruse, chiamando in causa fantomatici clienti asiatici e fornitori latinoamericani. Mi ritrovai da solo in quel grande istituto, senza nemmeno la speranza dell’attesa dell’incontro con l’ultimo legame alla mia vita precedente.
    
    I nonni si facevano sentire di rado, con una telefonata ogni tanto che mi lasciava sempre l’amaro in bocca perché i loro “un giorno verremo” e “ti aspettiamo quando vuoi” si risolvevano sempre in un nulla di fatto.
    
    Mi ero fatto pochi amici e anche con i compagni di stanza o di classe i rapporti erano al minimo.
    
    In compenso mi piaceva la scuola ...
    ... e studiare. Passavo molto tempo in biblioteca e prendevo buoni voti. I professori esaltavano le mie doti e mi prospettavano una luminosa carriera negli anni a venire.
    
    Io ne ero felice, soprattutto per l’impegno che ci mettevo nello studio, ma quello che sentivo era un enorme vuoto all’altezza del petto. Un vuoto che cercavo di colmare camminando per la città in ogni momento libero dallo studio. Era una bella città, non troppo grande ma con tutto quello che uno poteva desiderare. Imparai a memoria le sue stradine del centro storico e i viali più grandi delle zone moderne; quali erano i confini dove le case signorili passavano la mano ai palazzi popolari; le zone della movida notturna e dove andare a bere un caffé in santa pace senza sentirsi fuori luogo.
    
    La città divenne la mia amante e la mia musa. Scrissi per lei diverse poesie e le pubblicai sul foglietto della scuola, ma con poco successo. Non era quello che mi interessava. Volevo solo amarla. Mi dava quello che i miei genitori non erano mai riusciti a darmi.
    
    Una sera di primavera, durante le vacanze di Pasqua, mentre ero immerso nelle mie camminate e nei miei pensieri sulla città, sentii una voce chiamarmi. Trasalii. Cercai con lo sguardo l’origine di quel suono e la trovai in un ragazzo fuori da un bar. Aveva un bicchiere in mano e lo identificai subito come uno dei fighi della scuola. Quei ragazzi che tutti ammirano e per cui le ragazze vanno in visibilio.
    
    “Ti va una birra?” mi chiese.
    
    Ero abbastanza ...
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