Montecalvario blues: "Gennaro Cusani alias giacomoleopardi"
Data: 23/02/2020,
Categorie:
Masturbazione
Autore: renart, Fonte: EroticiRacconti
Gennaro Cusani non era certo quel che si è soliti definire un adone. Sul metro e settanta, tarchiato, collo taurino, una paio di occhietti da topo infossati in occhiaie profonde come zuppiere, una braciola al posto di una bocca un po’ troppo vicina al naso carnoso e infestato da punti neri grossi come moscerini, la natura si era ulteriormente accanita su di lui facendogli dono di una devastante acne che gli accendeva il viso di puntolini giallognoli pulsanti come neon nella notte, e che teneva ben distanti le ragazze, come se la scritta contenuta in quei neon facesse prefigurare il contagio di una vita disgraziata alla mercé dello sberleffo e dell’emarginazione sociale. E in effetti un emarginato, Gennaro Cusani, lo era – sebbene si trattasse di un’emarginazione volontaria, un ritrarsi consapevole dentro se stesso, in un mondo fatto di scuola e di silenzi chiuso in camera. Persino i suoi genitori si erano rassegnati ad averlo solo a tavola e, dopo lungo tempo di angosce per vederlo così fuori dalla vita, così diverso e lontano dai suoi coetanei, avevano riposto entrambi, il signore e la signora Cusani, una incondizionata fiducia nel futuro di quel figliolo sfortunato nelle fattezze ma così brillante negli studi, tanto da meritarsi l'epiteto di Leopardi – anzi, giacomoleopardi tutto attaccato - tra la scolaresca del Liceo classico Sannazaro e tra la ciurmaglia certo meno raffinata di ragazzini del suo quartiere. Da parte sua, quello sconcecanome non gli dispiaceva affatto. ...
... Del resto, prima ancora che glielo affibbiassero, già per conto suo aveva istituito più di un’analogia con l’illustre recanatese, dall’oggettiva bruttezza del corpo all’amore per le lettere. Poi, la sua fantasia si era spinta oltre, fino ad un’identificazione che lo portava, nell’alcova protetta della sua immaginazione, a teorizzare possibili situazioni fonti ispiratrici dei canti del poeta. E così immaginava Leopardi sul «verone del paterno ostello» che guardava Silvia intenta a filare, mentre la sua voce flautata intonava arie che riempivano le «quiete stanze» tutt’intorno, saturandole di febbrile elettricità, del tutto similmente a lui che, da dietro le tende della sua mansarda – tirata su abusivamente sul terrazzo patronale dalle mani esperte del signor Cusani, mosso dalla volontà di preservare l’intimità e lo studio di quel figliolo così promettente – cazzo stretto nel pugno, spiava la bella Giorgina (cfr. racconto "Montecalvario blues: "La bella Giorgina"), la ragazza che lavorava ad ore nell’appartamento di fronte cantando non certo il Metastasio, bensì una più in voga Maria Nazionale, mentre energicamente ci dava di straccio e di ramazza, e, anche se non c’erano viottoli e il mare non si vedeva da lì, la sua voce ugualmente emergeva sopra gli strilli nel vicolo e sulle sgasate assordanti dei mezzi truccati. E più spingeva in avanti la scopa, chinandosi col busto, dal quale ballonzolavano armonicamente le tette, e più la gonnella le risaliva svolazzante sulle cosce ...